Mostra personale di Francesco Barbieri
[…] la grande città, “dove tutto, anche l’orrore, si
trasforma in incantesimo”
Walter Benjamin, citando Baudelaire
Mentre parliamo, Francesco Barbieri
dice una frase che cattura più di altre la mia attenzione: “La metropoli è
l’esperienza contemporanea per eccellenza”. Nell’ascoltarla non posso non
pensare a Benjamin e ai suoi scritti francesi, su tutti, quelli su Baudelaire e
su Parigi capitale del XIX secolo. Proprio con Charles Baudelaire, ci fa notare
il filosofo tedesco, la città – che non può che essere Parigi – diventa
soggetto di poesia, e quindi il soggetto più importante di cui scrivere. Non
solo. È con Baudelaire che nasce l’idea della città come esperienza estetica:
un’esperienza legata alle folle e alla flânerie,
ai passages, al ferro che li orna e
al gas che li illumina.
Ma quella era l’esperienza della
modernità. Possibile che, a distanza di oltre centocinquant’anni
dall’apparizione dei Fiori del male e
del Pittore della vita moderna, la
città sia ancora oggi il fulcro della nostra esperienza? Sicuramente non è il
solo, visto che lo spazio pubblico, un tempo definito esclusivamente dai luoghi
fisici della città, si è ormai esteso a quelli virtuali e apparentemente
sconfinati di Internet. Eppure, ancora nel 2023 la città, e in generale
l’esperienza urbana, continuano a occupare una posizione cruciale all’interno
dell’immaginario collettivo. I motivi che affollano questo immaginario sono,
naturalmente, ben diversi da quelli che troviamo in Baudelaire. La città, e con
essa la sua idea, già allora oggetto di trasformazioni rapidissime, sono mutate
in nuovi paradigmi: dalla Parigi ferrea di Baudelaire e Benjamin si è passati
alla New York di vetro di Paul Aster e Rem Koolhaas, fino alle città-schermo
delle grandi metropoli asiatiche, che tanto somigliano alla Los Angeles di
Blade Runner o alla fittizia New Port City di Ghost in the Shell.
Tuttavia, se c’è un tratto che
caratterizza più di ogni altro l’esperienza che ci offre la metropoli odierna,
è quello del suo disfacimento: non tanto i centri che pullulano di grattacieli,
ma le terre di nessuno dei margini; non la costruzione degli edifici, ma il loro
abbandono; non i luoghi affollati, ma la loro desertificazione. Dagli Anni
Sessanta a oggi sono in molti i filosofi, gli architetti e gli antropologi – da
Henri Lefebvre a Marc Augé, dallo stesso Rem Koolhaas a Anthony Vidler – ad
averci raccontato che l’esperienza della metropoli odierna non abbia più niente
a che vedere col fermento e con l’entusiasmo futurista che accompagnò lo
sviluppo delle grandi capitali europee e delle grandi città americane tra la
fine del XIX secolo e la Seconda Guerra Mondiale. L’esperienza contemporanea
per eccellenza della metropoli è, al contrario, quella spettrale e “occulta”
dei suoi non-luoghi e delle sue rovine, dei suoi sotterranei e dei suoi junkspace, delle sue zone di transito e
dei suoi interstizi. Che è anche e precisamente quella che emerge dalla pittura
di Francesco Barbieri.
La città di Barbieri è una città
interstiziale, il cui paesaggio è definito unicamente dalle sue architetture
post-industriali e infrastrutturali.
Forse, la città di Barbieri è addirittura una
città deserta, dove le gru che ne delineano lo skyline sono in realtà immobili
e i treni, che ne percorrono le viscere, vuoti. Uno scenario distopico che
sembra provenire da qualche racconto di fantascienza, in cui l’umanità è stata
cancellata da qualche evento catastrofico di cui, però, non ci è dato sapere. La
caratteristica più evidente e l’aspetto che salta subito agli occhi
dell’osservatore di questi dipinti è, non a caso, la totale assenza di persone.
In queste città non vi è più spazio per le folle, vero e proprio elemento cardine
della modernità baudelairiana, poi proiettatosi nel Novecento, producendo in
pittura capolavori come La Città che sale di Boccioni (1910-11). In Barbieri le folle sembrano essere del tutto
svanite, come inghiottite da quelle stesse architetture post-industriali e
infrastrutturali, uniche vere protagoniste dei dipinti. Gru, tralicci, cavi
dell’alta tensione, treni e rotaie disegnano un paesaggio urbano dove non solo
l’umano non figura, ma non sarebbe neanche pensabile.
Si provi, per gioco, a inserirvelo con l’immaginazione: finirebbe per rompere
un equilibrio estetico che sembra basarsi prima di tutto sull’assenza
dell’elemento umano.
Strana parola però, “equilibrio”, qui
impiegata per descrivere degli scenari dove gru e tralicci sembrano, anche solo
in apparenza, flettersi, se non addirittura spezzarsi continuamente. Se la
città di Boccioni saliva e fermentava con la sua folla e la sua palette
incendiaria, la città di Barbieri è una città vuota che sembra cadere e
disfarsi senza sosta, lambita da bagliori ora acidi, ora metallici, ora
lattiginosi, restituiti da certe pennellate e certe polverizzazioni, che
assieme agli inchiostri neri delle gru e dei tralicci contribuiscono a ricreare
un’atmosfera surreale, quasi incantata. Questo incanto è anche il frutto di sapienti
ibridazioni tra pittura e fotografia, o ancora di collage dove gli elementi
architettonici sono, individualmente o a piccoli gruppi, raccolti su patch di carta poi giustapposti o
sovrapposti fino a creare uno strano caleidoscopio irregolare, capace di
restituirci solo frammenti di vedute.
In ciascuno di quei frammenti vi è
la traccia dei luoghi che l’artista ha esplorato durante la sua esperienza nel
writing, e che qui sublima in un paesaggio urbano de-umanizzato, una specie di caos senza folla. Potremmo proporla,
questa, come una possibile definizione di rovina, e così come il writing è, a
suo modo, una pittura nelle rovine
contemporanee, quella di Barbieri è una pittura delle rovine contemporanee. Le rovine, d’altronde, hanno il
singolare potere di farsi osservare con occhi incantati, malgrado siano segni
tangibili del disfacimento dei luoghi che abitiamo.
La missione della pittura
di Barbieri non è certo quella di contribuire all’incantesimo, estetizzando o
lirizzando quel disfacimento come poteva accadere secoli fa, all’epoca del Grand Tour, quando in Europa la pittura
si faceva veicolo ozioso della riscoperta delle rovine antiche. Tutt’altro: la
pittura qui assolve pienamente una delle funzioni contemporanee della
figurazione, e cioè raccontare le cose del mondo al quale essa appartiene,
attraverso la creazione di nuove prose stranianti. Nel caso di Francesco
Barbieri, la prosa è quella singolare del pittore che continua a portare dentro
di sé l’avventura del writer: un odierno flâneur, che rifugge le folle pur
sottoponendo queste ultime all’invasività dei propri segni, sicuramente fra le
figure-simbolo dell’esperienza contemporanea della metropoli.
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